Sul filo della memoria

Sul Filo della Memoria

Le tele di Picini si direbbero, per la maggior parte, scandite d’impulso e senza ripensamenti dal veloce e disinvolto fluire di una pennellata larga e allo stesso tempo incline al guizzo della altrettanto rapida ed essenziale notazione disegnativa a cui è sconosciuta ogni tentazione di bellurie e di calligrafismo, accogliendo e seguendo i criteri di un fare pittorico da cui prende rapidamente corpo una esecuzione di rara immediatezza e a volte di tipo quasi gestuale, benché sempre controllata e raziocinante, sempre elaborata in perfetta sintonia con l’armonico strutturarsi, in corso d’opera, delle magistrali soluzioni formali e del robusto ordito architettonico – compositivo che ad esse si sottendono. Anche alla luce di tale chiave di lettura, queste prove consentono di individuare le indiscutibili valenze qualitative del suo dettato e di cogliervi il senso e l’incidenza delle raffinate componenti cromatiche, orchestrate su una tavolozza sotto molti aspetti nuova e personale.

Il felice conseguimento di siffatto equilibrio, in cui le componenti strutturali e linguistico-formali risultano pienamente integrate, si pone fra i caratteri distintivi di maggior pregio e rilievo della sua produzione. Ed è evidente come la necessaria padronanza dei mezzi tecnici, l’acquisizione di quel linguaggio decisamente soggettivo e la scioltezza di quel fare senza ripensamenti, che gli sono ormai divenuti propri e abituali, non siano certamente virtù che si conseguano senza sottoporsi con amorevole e assoluta costanza alla dura trafila di un severo e certo non breve tirocinio da affrontare con tutta l’umiltà di un sottomesso apprendista disposto a una totale dedizione.

Sono qualità che equivalgono, infatti, al conseguimento di obiettivi da lui perseguiti, non senza fatica e caparbia determinazione fin da quando venne iscritto alla Scuola statale d’Arte “G. Mazzara” di Sulmona dal padre, “consigliato dai vicini di casa”, come tuttora il pittore racconta. Evidentemente, pur nella loro semplicità, essi avevano apprezzato e lodato la istintiva inclinazione con la quale fin dalla fanciullezza cominciò a modellare l’umile creta raccolta lungo le sponde del torrente Vella, fra le cui acque e lungo il cui corso consumava le interminabili ed afose giornate dell’estate, vagabondando e tirando sassi alle lucertole o catturando ranocchie e girini insieme a quei suoi coetanei, quasi tutti figli di contadini impegnati nei campi dalle prime luci al calare della notte, che non sempre li obbligavano a seguirli perché fornissero qualche piccolo aiuto al loro duro lavoro. Per cui, non conoscevano limiti a siffatte libertà, instancabili nella loro sorprendente vitalità, benché avvezzi a sopravvivere con poco e abituati a camminare scalzi per non consumare le scarpe di cui si calzavano solamente dai primi freddi invernali ai primi tepori della primavera. E mentre quei compagni si accontentavano di dare a quella creta una rozza forma di piccole coppe per poi scaraventarle sulle pietre levigate del greto, gareggiando fra di loro a chi riusciva a ottenere il più fragoroso schiocco provocato dalla fuoriuscita dell’aria che vi rimaneva compressa, egli indugiava a modellare piccole figure, che riportava a casa per conservarle, ma che, asciugandosi, finivano con il disgregarsi.

Iscritto per questa ragione al corso di scultura, prese subito ad esercitarsi con la creta e con il gesso, ma, allorché si pose a scalpellare la pietra, il professore, ritenendo troppo faticosa una tale incombenza per un ragazzo pallido e magro quale egli era, lo fece trasferire a quello di pittura, aprendogli la via per una professione fin dal primo momento e ancora oggi profondamente amata. Cominciò subito a far tesoro degli insegnamenti ricevuti durante gli studi precocemente intrapresi a Sulmona e quindi approfonditi, con esiti di pregevolissimo livello specialmente nel Nudo, presso l’Istituto Statale d’Arte di Firenze, dove, grazie alla provvidenziale borsa di studio del Ministero dell’Educazione Nazionale, poté trasferirsi e avvaler si della guida di eccellenti e illustri maestri come Gianni Vagnetti e Alberto Caligiani.

L’appassionata serietà dell’impegno, mentre valse a farlo distinguere fra i compagni di corso e i coetanei avviati alla pittura, gli permise di consolidare le basi di un già personale modulo espressivo, ove si considerino, da una parte, gli eccellenti risultati a cui pervenne in ambito scolastico e, dall’altra, i consensi da cui furono coronate le precoci partecipazioni agli eventi espositivi degli anni Quaranta, nei quali, infatti, non mancò di distinguersi.

Forse meglio di altri riconoscimenti ricevuti in Abruzzo, concorre ad attestarlo, data la valenza e il particolare significato da annettervi, quel 2° premio, consistente in una borsa di studio per 6 mesi di permanenza presso una delle Accademie di Belle Arti italiane, che, nel 1943, gli fu assegnato, in ex aequo con lo spagnolo Vincente Roman Fuente, dalla Giuria del prestigioso Concorso Internazionale di Pittura, “Premio Città di Firenze”, di cui l’ungherese Gyla Nagy fu il vincitore. Il respiro sovrannazionale dell’evento, sottolineato dal non comune risalto con cui ne vennero predisposti gli incontri e solennizzate le manifestazioni di inaugurazione e di conclusione, sottolinea la rilevanza decisamente maggiore rispetto al risultato dello stesso livello conseguito nella graduatoria stilata per la Mostra Interregionale d’Arte di Pescara a cui aveva partecipato nel 1942 e agli altri neppur trascurabili attestati guadagnati nell’arco di quegli anni.

Si tratta, in ogni caso, di presenze e consensi che assumono il valore di un eloquente segnale indiziario del momento in cui la vicenda artistica di Picini comincia ad avere una sua storia attraverso opere nelle quali, per altro, già si scorgono le prime avvisaglie di una formulazione tematica di orientamento sociale. Sono i primi approdi di un lungo cammino nei quali sembra già possibile cogliere la riprova di come, ferma restando la determinante importanza di una salda base formativa, non sia di per sé sufficiente il solo percorso scolastico, per quanto validi siano i docenti e brillanti si dimostrino i risultati conseguiti, a costituire quella strutturata e complessa formazione che consente di mettere pienamente a frutto le risorse di cui ciascuno è dotato e di esprimere compiutamente la propria personalità, ove quell’iter non venga integrato e supportato da un adeguato patrimonio intellettuale da costituire ed ampliare, senza trascurare il confronto con le altre forme di espressione artistica, attraverso un continuo arricchimento di conoscenze e un progressivo affinamento della sensibilità da acquisire e maturare attraver so lo studio, la comprensione e l’analisi delle opere e delle esperienze dei maggiori Maestri antichi e moderni.

In tal senso gli anni fiorentini si rivelarono fondamentali per il giovane pittore, dal momento che, oltre ad acquisirvi la padronanza delle tecniche pittoriche ed espressive, seppe riservare consapevole attenzione alla cospicua eredità di cultura, d’arte e di architettura di cui la Città va giustamente orgogliosa e fiera. Si trattò di un articolato e composito, benché per lui entusiasmante, percorso, dal momento che, nello stesso non breve, ma neppure troppo esteso volgere di tempo, mentre in quella precipua «atmosfera culturale ispirata dalle figure di Ottone Rosai e di Ardengo Soffici, di Felice Carena e di Primo Conti» la sua sensibilità si andava plasmando schiudendosi alle più recenti esperienze ed educandosi al gusto novecentesco, ebbero luogo esperienze determinanti per la sua formazione, quali appunto si rivelarono lo studio partecipato e l’approfondimento talora analitico che riservò ai grandi Maestri del passato, dei quali imparò a conoscere la personalità e a comprendere l’incidenza che la loro opera aveva avuto all’epoca in cui vissero, nel dipanarsi della vicenda dell’arte e nell’evoluzione del linguaggio fino ad avvertirne tutto il fascino e la prepotenza del magistero. A lasciare in lui la traccia più duratura fu, da una parte, la complessa lezione che promana dalla pittura di Giotto e, per altri aspetti, da quella di Masaccio, dal cui linguaggio forte e vigoroso e dalla cui mirabile robustezza di sintesi e di impianto formale, quali si colgono espressi con prorompente efficacia specialmente negli affreschi della Chiesa del Carmine, egli fin da allora rimase tanto fortemente attratto da ricavarne il fondamentale insegnamento e il principale esempio su cui si innestarono le intuizioni, gli sviluppi e il prosieguo della sua visione artistica, come più specificamente emerge dalle fogge e dalle propensioni del suo linguaggio, che proprio di qui si direbbe aver esplicitamente tratto le origini e trovato gli estremi di partenza per continuare ad affondarvi le più profonde radici anche oltre la maturità.

Quando fu, definitivamente rientrato a Sulmona, la Città in cui era cresciuto fin da pochi mesi dopo aver visto la luce nella prossima Stazione di Bugnara nel 1920 e donde non è si mai più definitivamente allontanato, ebbe presto l’incarico di docente presso la Scuola d’Arte “Gentile Mazzara” nella quale aveva ricevuto la prima formazione, e, quasi senza interrompere i ritmi di lavoro divenutigli consueti a Firenze, continuò a dipingere insistendo in una pittura pervasa da una vena per molti versi intimistica. Insieme a pochissimi disegni eseguiti in quegli anni, che talora ricordano atmosfere e modi cari ad Ardengo Soffici, alcune piccole prove ad olio, tuttora presenti nel suo studio, testimoniano la determinazione e la serietà dell’applicazione con cui si era fino a poc’anzi impegnato nel Capoluogo toscano, dove alternava alle esercitazioni affrontate durante gli orari di lezione i piccoli ritratti e composizioni per i quali faceva posare i compagni di scuola. Appena più numerosi sono gli elaborati e i più rapidi schizzi a penna o a matita realizzati verso l’ultimo scorcio degli anni Trenta, che danno conto dello scrupolo con cui attese allo studio del nudo e consentono di cogliere qualche tratto del suo percorso evolutivo nella raffigurazione e nella interpretazione della figura. In nulla mutarono l’intensità e la consequenzialità dell’impegno con cui continuò ad operare a Sulmona, dove, oltre a parenti e amici, prendeva a modelli i bagnanti che d’estate frequentavano la valle di San Venanzio, che si schiude nelle adiacenze della non lontana Raiano. Accanto alle non poche prove di quest’ultimo genere e ai prevalenti saggi di ritrattistica licenziati dopo il rientro a Sulmona ancora conservati nel suo studio, spicca la presenza di qualche rara natura morta, dalle felici scansioni volte a una sintesi serrata e dalle eloquenti propensioni prevalentemente tonali, e di alcuni altri dipinti, non molti in verità, ma sufficienti a rendere una chiara idea dello spirito e degli orientamenti da cui veniva governata la sua giovanile sensibilità creativa nella prima metà degli anni ’40, a più di uno fra i quali arrisero apprezzabili consensi.

Si tratta di pagine da cui spesso emerge la propensione ad un intimismo che recupera la sua coinvolgente intensità dai lirici accenti attraverso cui l’ancor giovane autore sa reinterpretare e declinare in chiave soggettiva, attraverso il filtro del peculiare e sotto molti aspetti già fisionomizzato orientamento del raffinato gusto estetico fino ad allora maturato e dal quale si lascia guidare, certa predilezione per i temi legati alla quotidianità e alle abitudini domestiche più comuni e dimesse che costituiscono il più frequente motivo ispiratore di partenza di volta in volta da lui riletto e nobilitato in corso d’opera grazie all’efficace apporto di una sostanza pittorica costruita orchestrando una tavolozza incline a coniu gare una gamma di tinte dai toni soffusi e raccolti atti a rimarcarne gli echi e i risvolti della poesia che vi ha avvertito e saputo cogliere.

Esempio fra i più intensi e convincenti se ne fa il racconto dei due timidi e quasi tremanti Piccioncini raccolti in se stessi che venne da lui proposto nel 1946 fra serrati e sinuosi ritmi curvilinei, sottolineati perfino dall’andamento della pennellata fluida e connotante, e attraverso la consistenza di un dettato affidato alla essenziale larghezza dei tratti e alla sapidità degli impasti elaborati fra le suggestioni delle intense quanto felici scansioni di terre e di bruni coniugate fra efficaci naturalezze di accordi tonali. È una prova che si potrebbe definire di snodo, in quanto sembra per certi versi rappresentare il culmine del cammino fino a quel momento affrontato in esiti fra cui non raramente parrebbe di scorgere le propensioni di una tavolozza e di un criterio di costruzione pittorica che si direbbero per certi versi preannunciare inclinazioni e sensibilità destinate ad acquisire progressivamente la sempre più soggettiva fisionomia e la maggiore spigliatezza di impianto che, filtrate e rese ancor più disinvolte e spigliate grazie anche alle nuove esperienze, finirono per contrassegnare, non molti anni più tardi, l’impronta del suo dettato.